Femminielli a Napoli, Ladyboy in Thailandia, Muxes in Messico, Hijra in India. Nella versione più occidentale e ottocentesca c’è la Zambinella di Balzac, nel suo romanzo Sarrasine, o Lily Elbe nel film The Danish Girl. Ci sono poi le sportive contemporanee, come Caster Semenya, esclusa dalle competizioni internazionali di atletica a causa del livello di testoterone, naturalmente alto a causa dell’iperandrogenismo.
Sono uomini o donne, ci si chiede. E’ l’ossessione della definizione binaria, che si confà al linguaggio amministrativo e istituzionale. Ma non è questa la giusta domanda da porre. Forse, è più rispettoso e interessante chiedersi: qual è la loro storia? Hanno un ruolo sociale?
Che sia artificiale o genetica, la fluidità di genere prende molte strade ma in alcune società del mondo si è stratificata fino a rendere il genere x una componente imprescindibile del tessuto sociale.
Si legge in un articolo pubblicato da L’Espresso «Questa presenza costante dei femminielli nelle dinamiche storiche urbane napoletane li ha resi tra i protagonisti della realtà antropologica locale. Napoli si è contraddistinta come una città che ha consentito a queste persone di potersi manifestare più liberamente e di ritagliarsi persino un ruolo sociale – curare anziani e bambini oltre alla più classica prostituzione».
Sarà probabilmente merito di questo atteggiamento che va oltre l’accettazione e invita gli individui “non conformi” a trovare un ruolo nella società. I personaggi più marginali, acquisiscono attraverso questo riconoscimento dignità di persona sociale.
Nel subcontinente indiano Hijra, che si definiscono Kinnera in India in riferimento agli esseri mitologici eccellenti nell’arte della danza e del canto, sono riconosciut* come terzo genere. Né uomini né donne. Occupano un posto speciale nella mitologia indiana, sono identificati come favorit* di Lord Rama.

Ma nella contemporaneità hijras non occupano un’isola felice. Spesso orfan* perché abbandonat* a causa della loro diversità sessuale (hijra significa eunuco in urdo), hijras vivono spesso di prostituzione, come Radhika, nella storia raccontata dal New York Times. La società è strutturata intorno a guru, coè hijras più anzian*, che controllano le vite e la prostituzione delle più giovani.«Centinaia di anni fa, sotto l’influenza della cultura induista, hijras godevano di un certo rispetto. Cambio tutto con l’età vittoriana e la colonizzazione inglese che trasferi alla società indiana anche una certa visione della moralità sessuale, criminalizzando le ‘ unioni carnali contro natura’”. Non sembra una storia poi cosi diversa dai codici penali e dai mores acquisiti con la colonizzazione dal continente africano. La smania di definizione sessuale sembra arrivare direttamente da una commistione tra il senso di colpa cattolico e l’ordine sociale tipico delle società occidentali.
C’è più integrazione del genere X nella parte meridionale del Messico, contraddistinta da una forte tradizione indigena e matriarcale. Descrive il magazine online TheTrip: «Secondo alcuni antropologi, l’accettazione di persone di genere non definito come muxe può essere ricondotta al Messico precolombiano: infatti i sacerdoti aztechi e le divinità maya vestivano sia in modo maschile, sia femminile ed erano considerate a metà tra i due sessi. In questa regione è quasi totalmente assente la transfobia, l’omofobia e la concezione binaria dei generi.»
The Atlantic ha dedicato a queste importanti figure della società messicana un mini documentario. «Muxes sono completamente accettat* dalla società nelle comunità che sorgono nell’Istimo, sono custod* delle tradizioni culturali e religiose, rivestono ruoli esclusivi come in alcuni rituali e nell’ adorno delle chiese durante le festività.»
In Europa e nel nord del mondo sono arrivati i bagni gender neutral nei luoghi pubblici. In paesi come Germania e Malta esiste la possibilità di registrazione anagrafica “X” quindi di riconoscersi nel terzo genere. Questo riconoscimento legale esiste anche in Australia, Nuova Zelanda, India, Canada e a New York. Ma la voglia di normalizzare non passa mai.
In copertina un dipinto di Gerda Wegener, ‘En sommerdag’, 1927
Rispondi